Ciao Marco, ti abbiamo voluto bene E’ la tua ultima fuga, riposa in pace

Se n’è andato il giorno di San Valentino, festa degli innamorati, e la circostanza, seppur casuale, è sinistramente emblematica per l’ultimo dei campioni che è stato capace di farsi amare da tutta una Nazione, grazie alla sue straordinarie imprese sulle strade del Giro e del Tour. Se n’è andato da solo, lontano dal suo mondo e dal mondo, nella gelida camera di un residence: non più uomo solo al comando, ma uomo solo nel tunnel della perdizione e della disperazione. La notizia ci addolora fino alle lacrime, ma non ci sorprende. Al di là delle circostanze della morte - suicidio, overdose, o che altro - sulle quali si farà chiarezza nelle prossime ore, possiamo dire che noi dell’ambiente temevamo, forse addirittura sapevamo che sarebbe andata a finire così. La sua tragedia umana, cominciata la mattina del 5 giugno del 1999 a Madonna di Campiglio, era sprofondata negli ultimi tempi in una spirale senza ritorno. Prigioniero della propria fragilità, sofferente, senza difesa, Marco si era rifugiato in paradisi artificiali che l’hanno lentamente fatto precipitare nel baratro.

Si era chiuso in se stesso, respingendo la mano tesa di chi, volendogli bene, lo avrebbe potuto trascinare fuori dal tunnel nel quale si era infilato. Si è circondato di gente che ha creduto amica soltanto perché assecondava i suoi desideri, ma che in realtà l’ha aiutato a sprofondare sempre di più. Avrebbe avuto bisogno di un intervento energico, capace di scuoterlo, di fargli capire da che parte stava il bene e da che parte il male, ma lo ha rifiutato. È fuggito dalla realtà, come un animale ferito, mettendo fra sé e il mondo un muro di diffidenza, dietro il quale ha creduto di potersi difendere da solo, perché nel prossimo vedeva solamente nemici. Purtroppo, l’unico nemico di se stesso era diventato lui. Si sentiva abbandonato, ma cercava la solitudine.

Adesso lo si può dire. La sua lenta agonia è nata da uno strappo che ha un luogo e una data precisi: Madonna di Campiglio, 5 giugno 1999. Quella mattina, alla vigilia della penultima tappa di un Giro d’Italia che stava stravincendo dall’alto di una superiorità persino esagerata, il direttore dell’organizzazione e un giudice di gara sono saliti nella camera d’albergo dove si stava vestendo per andare alla partenza e gli hanno comunicato l’espulsione dalla corsa per i valori fuori norma dell’ematocrito.

Pantani è praticamente sceso di bicicletta. Si è tolto la maglia rosa e ha idealmente indossato i panni del perseguitato. Anziché comprensione, ha cercato complicità, accerchiandosi di persone sbagliate, che l’hanno aiutato ad aggiungere errore a errore, scavandogli la fossa sotto i piedi. Avrebbe potuto ammettere il suo sbaglio - o, comunque, prenderne atto - e predisporsi a un pronto riscatto, come altri avevano fatto prima di lui. Invece, ha cercato una improbabile scorciatoia, accusando il suo mondo di averlo prima sedotto e poi abbandonato. Se l’è presa con tutti e con tutto. Ai ripetuti annunci del rientro hanno finto di credere solamente quelli che erano interessati a continuare a mangiare alla sua greppia.

In realtà, i suoi erano proclami più che programmi, suggeriti dalla rabbia più che dalla passione. Fingeva di sorridere, ma digrignava i denti. Ha cominciato a frequentare le discoteche più che le strade e, giorno dopo giorno, si è irrimediabilmente perso. L’ultima apparizione, al Giro d’Italia, sembrava l’inizio di un Pantani nuovo, meno campione ma più uomo. Era stata, purtroppo, l’ultima sortita del Pantani vecchio che, pochi giorni dopo, sarebbe stato ospite di una struttura sanitaria specializzata nel recupero dei malati da dipendenza da droghe.

A settembre si era rifatto vivo per annunciare che si sarebbe ritirato dalle corse, perché non sentiva più il desiderio della bicicletta. Aveva aggiunto di sentirsi un uomo sereno, ma sapevamo che non era vero. Poi il nulla, rotto di tanto in tanto da qualche segnalazione: è andato a Cuba, l’hanno visto in Romagna, ha partecipato a una festicciola di compleanno, è aumentato di 20 chili. Fino al lancio d’agenzia di ieri sera, che mette fine a una vita tormentata.

Di lui ci resta ora soltanto il ricordo delle sue straordinarie imprese: le grandi fughe sulle montagne del Giro e del Tour, i trionfi in rosa e in giallo nello stesso anno, il 1998, sulla stessa bicicletta, la mitica Bianchi, sulla quale oltre mezzo secolo prima aveva strabiliato il mondo Fausto Coppi. Milioni di persone, in Italia e nel mondo, gli debbono un grazie per le straordinarie emozioni che ha fatto loro vivere sul Pordoi e sul Mortirolo, sul Galibier e sull’Izoard, a Montecampione, all’Alpe d’Huez, a Guzet Neige, al Plateau de Beille, a Le Deux Alpes, teatro delle sue gesta. Salite impervie, diventate purtroppo la metafora della sua vita: una vita in salita. Ciao Marco, anche noi ti dobbiamo un grazie. Ti abbiamo voluto bene. Riposa in pace.

Ildo Serantoni

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